domenica 28 novembre 2010

Sriligioni

Lo Sri Lanka ospita numerose confessioni. Non spontanee rivelazioni rispetto a misfatti passati, bensì religioni con verità e riti relativi.


Mi reco in un tempio buddhista, e a piedi nudi mi acciambello a fianco degli oranti (o tecnicamente forse solo recitanti). Da cattolico so non essere presente il Santissimo, ma da uomo vi percepisco una sacralità. Se vivessi in un Paese senza chiese, preferirei pregare in templi di altre religioni o in luoghi non dichiaratamente religiosi? E se un fedele di un’altra religione, che so, un induista, sentisse parimenti il desiderio di pregare i suoi dei in una chiesa cattolica, che effetto mi farebbe?

Beppe ci racconta come la bestemmia esista solo in Italia, e Alberto si chiede quante preghiere ogni secondo vengano pronunciate sulla Terra. E verrà un secondo in cui, invece, la linea sarà libera? E un primo?

Un monaco dagli occhi truccati c’invita ad entrare a casa sua, il sacerdote che ci accompagna è suo amico e lui vuole fare la nostra conoscenza. Il sacerdote ci spiega come in ogni chiesa ci sia chi cerca più appassionatamente il dialogo e chi guarda ad esso come una deviazione dalla propria missione.

Scopriamo che “Dagoba” non è solo il nome del pianeta in cui Luke ha conosciuto il maestro Yoda, ma anche di alcuni cupole buddhiste dalla guglia prominente, di cui abbiamo visto un gran bell’esempio ad Anuradhapura.


2° me contengono qualche arma segreta che l’ONU sfodererà qdo gli alieni proveranno a sottometterci nel 2012 m.d.C. Qua c’è chi dice rappresentino il corpo del Buddha (…) chi crede rappresentino i 5 elementi.

- 5 elementi?
- Cosa ho scritto?
- Troppo cinema.. Quale sarebbe il 5°?
- Il nulla
- Il nulla non vale
- Quanto tempo mediti?
- Bella domanda. Vale tutto? Un’ora.
- Al giorno?
- Alla vita

Accendiamo un lumino che un solerte cacciatore di turisti ci offre. Il mio non prende fuoco, allora provo ad appizzarlo da quello di Alberto. Ottengo il risultato di spegnerlo. Il cacciatore ci soccorre e, riaccesi entrambi, sentiamo uno scroscio nel cielo. Sperando che la cupola non si divida (non siamo pronti per l’invasione), capiamo che ad Anuradhapura abbiam dato tutto.


Paolo

ps. A Badulla, prima di iniziare le lezioni, gli studenti meditano per un’ora in piedi, immobili ed eleganti nel portamento e nella loro divisa scolastica “so Brit”

Foto di Alberto Minoia

Su al Nord

Anuradhapura, 23 novembre 2010

Un po’ x scrivere un post ad “Anuradhapura” (che il correttore ortografico di Word2007 già conosceva), un po’ x scrivere che del lembo di missione al nord, a Jaffna e a Kilinochchi (che il correttore ortografico di word2007, a qsto punto con l’iniziale minuscola, non conosceva, con mio sentimento di rivalsa), non se ne potrà scrivere. Perché è meglio di no, ci viene spiegato. E noi, dalla zona militarizzata dello Sri Lanka, non si può che obbedire. L’unica nazione che ha sconfitto il terrorismo, vien detto da una parte.

Tra le cose che non si possono scrivere ci sarebbe sincero apprezzamento per alcuni, non perché a loro cambi qcsa (beh, purtroppo sì, ma forse in peggio), ma x la dedizione ammirevole alla propria missione. Con un pezzo di bomba nella testa e cicatrici nel cuore.

E poi i bambini, che sono coloro che le guerre meno le possono capire e più se le portano addosso, svuotati di anni di sorrisi e di corse alla porta di casa. Giocare con loro non era richiesto dalla missione, ma l’ha spruzzata di un senso, emotivo, che non vorrei smarrire.


Sempre lodato sia il cicicicià.

Un’immagine memorizzata in qste giornate è una ragazza con una maglietta nera di google che passa sotto un arco artigianale creato con il corpo ferro che sostiene le catene due altalene, con le stesse ormai inestricabilmente arrotolate sopra, gingilli che guerra e tecnologia, dove autonome, dove compresenti, rendono decadenti ornamenti delle odierne cittadine.

Salendo al nord si avvistano con frequenza cartelloni pubblicitari volti verso i mezzi che arrivano. Spot di assicurazioni e telefonini e shampoo. Nel nulla delle brughiere bruciate dagli scontri e delle paludi abbandonate ad antiche solitudini, la vita riprende a rilucere dai cartelloni rappresentanti occidentali sorridenti.

Beppe ci ha omaggiato di un quaderno fatto al 50% di sterco riciclato di elefante: in Sri Lanka i 2800 elefanti rimasti sono considerati animali nobili e cortesi, meno che dai contadini, che ne invocano il trasferimento. Si dice che questo sia l’unico posto del pianeta dove puoi avere le balene davanti e gli elefanti dietro. Non una posizione esattamente comoda.


Badulla, 24 novembre 2010

I pachidermi sembra che portino fortuna perché vicini alle nuvole, e quindi alla pioggia. Certo è che forse ne portano troppa, considerati gli allagamenti a Colombo di oggi e la nostra traversata a sud in macchina fino a Badulla, contro muri d’acqua e banchi di nebbia. Ha smesso di piovere solo nelle occasioni di visite in cui dovevamo avanzare a piedi scalzi, per poi riprendere burlone quando ci trovavamo troppo distanti dalle nostre scarpe sportive.

Talvolta una statua gigante del Buddha inframezza il panorama. Altrimenti tutto verde. Alberto ipotizza che il verde nasca da qua e poi venga esportato. Certamente questo succede con il tè. Quello verde e quello nero.


Paolo

Foto di Alberto Minoia

domenica 21 novembre 2010

Oh, Kandy!

Poi andiamo a Kandy, nel bel mezzo dell’isola, all’altitudine di mezzo km, resistita alle occupazioni straniere 3 secoli + del resto del Paese.

Giusto per: la nostra visita a Kandy non ha niente a che vedere con il pullulìo di cartoni animati vintage sulle immagini di profili facebook; quella è Candy. Ci dà invece da vedere un pullulìo di animali: elefanti, similiguana, scimmie, scoiattoli. Niente draghi o lupi, ma qsta è la fine.

Qsto è l’inizio: ci rechiamo in treno, ed è un bel recarsi: la nostra carrozza di seconda classe è confortevole e ci dà modo di osservare il panorama alla comoda velocità media di 28 kmh. L’unico mezzo di trasporto, 2° Alberto, sul quale è possibile fare girare l’hula hop da fermi.

Dettaglio della cucina del Seminario cattolico di Kandy, di Alberto Minoia

A Kandy vi è il seminario nazionale srilankese, dove siamo ospitati dal premuroso Father Raveen, e il Tempio del Sacro Dente, per la precisione il canino sx del Buddha. Lo Sri Lanka è (ancor di + dopo il conflitto interno concluso nell’aprile del 2009) un Paese a maggioranza buddhista, ed abbiamo occasione di visitare tale reliquia. Questa è conservata, piccola matrioska, dentro 7 scrigni dorati e quindi non visibile.

Lo spettacolo più interessante è costituito dalla situazione sociale che si crea nell'ambiente adiacente: si tratta di uno spazio poco più ampio di un corridoio ad un lato lungo del quale stanno i fedeli, in contemplazione, mentre al centro dell’altro lato lungo lo spazio con il venerato dente, dietro una coperta di fiori. E fin qua, nulla di rilevante. Ma in mezzo al corridoio ci stanno i turisti (“occidentali” e asiatici) meno toccati dalla sacralità della (circo)stanza che, armati fino ai ***** di tecnologia, fotografano gli scrigni. E anche qua: può indispettire, ma è un classico dell’arte religiosa: se esposta in luoghi di culto si presta, quando non è proibito, ad essere contemporaneamente oggetto di preghiere e flash. La mia sorpresa sta nel fatto che il mirino degli apparecchi era sovente puntato sulle scimmie aggrappate fuori, nell’apparente indifferenza verso il raccoglimento dei credenti (perché in Sri Lanka il Buddhismo è considerato “religione”), davanti ai quali si sostava rumorosamente.

Dettaglio della camera del Sacro Dente, di Alberto Minoia

Scritta temo non renda, ma non c'è tempo per perfezionare; e c’è anche da dire che parevamo gli unici stupiti da tutto ciò e forse dovrei meditare a riguardo. Intanto, dopo avere filmato la scena (...), l’ho scritto qua. A fianco di 1 avvertimento maschile: ricordatevi di portare mutande quando andate in Sri Lanka. E se doveste accidentalmente –capita- dimenticarle e non aveste raggiunto –capita- considerevoli picchi di sobrietà nello stile di vita, acquistatele di misure enormi, a prescindere dalla vostra –capita- virilità. Pare che il bacino srilankese sia insospettabilmente stretto. Un bacinino. O che il negozio vendesse abbigliamento per minori, ma preferisco non pensarci.

Siam certi che il nostro inglese risulta incomprensibile ai più: le mie battute migliori ieri sono state accolte con incorrotti silenzi dall’assemblea di seminaristi (e la buona sorte vuole che io non rida delle mie battute); c’è da registrare, però, lodevoli tentativi di italiano da parte di 1 aitante studente che ci ha raccontato di conoscere un lupo che aveva a che fare con un drago e per questo era spesso fuori di testa. Agli strabuzzamenti miei e di Alberto ci ha tradotto in inglese che conosceva un gruppo di tossicodipendenti.

Ci siamo divertiti: un po’ di interreligiosità qua a Kandy che quella si può scrivere (rimangono rispettosamente nella tastiera le centinaia di freddure con "denti"), ma ne servirebbe di più. E di trasversalità mediatiche. E quelle, invece, bastano così.

Kandy, oh Kandy, nella vita sola non sei,
anche nella neve più bianca, più alta che mai
Kandy, oh Kandy, che sorrisi grandi che fai,
che sapore dolce, che occhi puliti che hai...


Paolo

sabato 20 novembre 2010

La mensa dell'amicizia

E fu mattina e fu pomeriggio e fu sera e fu nebbia.

(Cari Paolo ed Alberto voi sì che siete al calduccio)

Noi (Irene e Sergio) si parte non senza aver sbirciato le previsioni del tempo e le temperature che ti accolgono quando arrivi in un Paese dell’est Europa. Nel nostro caso il sole e una temperatura tiepida dovrebbero assicurarci giorni senza calzamaglia e mutande di lana.

Arrivi a Sofia (“ e fu pomeriggio”) e ti convinci che il web è una bella risorsa.

Padre Remo ci aspetta con V. che lo ha accompagnato nel lungo viaggio che ci riporterà a Malchika dove Sabato (oggi, ndr) verrà inaugurato il Centro comunitario cofinanziato dalla Diocesi di Milano nell’Avvento 2009: la mensa dell’amicizia

Sosta per cenare e ora guido un po’ io. E fu sera e fu nebbia. 120 km di muro. Valpadana. 40 km/h di media. Occhi spiaccicati sul cruscotto alla ricerca di una riga di mezzeria che ti aiuti a capire come tenere il volante.

Tutta colpa del Danubio. Arrivati.

E fu notte.

Freddo. Coperta. Freddo. Due coperte. Freddo.

Web non ti sopporto.

E fu mattina, primo giorno.

Nebbia e funerale. Qui si usa così. I parenti siedono accanto al feretro adagiato sul carro seguito da conoscenti e amici.

Noi seguiamo Remo per fare gli ultimi acquisti in vista della festa. Sono settimane che gli uomini e le donne del villaggio, terminato il lavoro nei campi e le faccende domestiche, lavorano senza sosta per finire di sistemare il centro comunitario.
Anche V. fa parte del gruppo. E’ brillante V. Quando lo vedi gesticolare sembra un italiano vero. E spesso sul volto gli si disegna un sorriso accogliente.

Stasera arrivano i nostri!

Francesca, Andrea e Marina hanno fatto parte del gruppo Bulgaria del Cantiere della solidarietà e vogliono fare festa con la comunità che li ha accolti durante la loro esperienza estiva.

Arrivano anche 4 giovani da Fermo. Dal 2004 anche la loro Diocesi collabora con P.Remo attraverso il servizio di giovani che spendono parte delle vacanze per stare accanto alla comunità di Malchika http://malcika.altervista.org/

Si può mangiare la pizza! Arrivano i giovani del villaggio.

E si condivide la storia di questi anni di amicizia e di costruzione di un sogno condiviso. Non far morire questo villaggio.

Anche se si deve partire per studiare, lavorare, emigrare, la comunità continua ad alimentarsi con un servizio fraterno che non dimentica gli anziani, i bambini, i disabili, le famiglie che ancora credono che un futuro a Malchika sia possibile.

P.Remo è agitatissimo.

Tra un abbraccio ad un ospite in arrivo e un saluto ai suoi parrocchiani,

non smette di sistemare le ultime cose.

Sta arrivando il nunzio apostolico, il vescovo, il provinciale dei Padri passionisti, tanti sacerdoti della diocesi, la sua gente.

E’ festa. Uno di questi giovani non sente e non parla.

E’ V. Lui ha inventato un linguaggio dei segni tutto suo con cui riesce perfettamente a comunicare con tutti. Perché il villaggio non lo esclude, non lo emargina e così tutti possono sedere

alla mensa dell’amicizia.



Sergio

E fu Sri Lanka

E fu sera e fu mattina. Quasi niente notte. Funziona così qdo voli ad est di sera.

E fu Milano e fu Colombo. Quasi niente Dubai. Funziona così qdo il volo è in ritardo e lo scalo è uno scalino.

Voli subito di nuovo. Inciampi. Nel sonno.

-

Ad accoglierci con una rosa il buon Beppe, cauntrirèp di Caritas Italiana, ed una capitale srilankese in festa, che il suo presidente e capo delle forze armate (e da domani anche ministro delle finanze e ministro dei trasporti) Mahinda Rajapaksa inaugura un nuovo porto. Ma non è politica l'unica festa in cui incappiamo, dal momento che ci assediano simil-abeti decorati e slitte agganciate ad improbabili alci di cartapesta e canzoni cantate da rugosi afroamericani. Babbonatale è buddhista? Sverna in Sri Lanka?

-

Il pomeriggio piove e al ritorno in guest house una banda di squatter ci attende in camera, a tenderci un agguato. Scarafaggi squatter. Grossa veloce scarpa da ginnastica. Pupille spalancate. Palpebre abbassate. Pupille spalancate. E fu notte e fu mattina.

-

Ha così inizio la missione di Alberto e Paolo in Sri Lanka, isola dove si parla singalese; lo straniero non asiatico si chiama “suda” e risponde “sì” (c'è tanta umidità che i libri di notte si aprono a ventaglio, a favore degli squatter lettori), “signora” si dice “nohna” e non si può scrivere cosa rispondono le giovani italiane così appellate.

È il blog d Caritas Ambrosiana, fratelli. Non un tg italiano. Mica si può scrivere tutto, ci spiega Beppe.


Questa non è una foto significativa. E' l'unica che ho scattato prima che si esaurisse la batteria. Particolare della stazione ferroviaria di Colombo. Meglio una foto insignificante che niente.

Paolo

martedì 16 novembre 2010

La Via Lattea sorridente


Esco da un piccolo bar… il primo dopo quasi tre settimane di permanenza sull’isola haitiana. Quattro chiacchiere, un sorso di birra, un momento di condivisione e relax. Beh, quale stupore più grande, arrivati alla soglia, nell’alzare gli occhi verso il cielo e sentirsi immensamente piccoli, avvolti da un manto stellato incredibile e da una sorridente via lattea. Non so l’ultima volta che ho visto una meraviglia del genere… che bello provare stupore di fronte a tanta abbondanza del creato!!! Ancora una volta scopro di essere piccola, forse un nonnulla; è una piacevole sensazione perché è come sentirmi racchiusa in un grande abbraccio. La vita notturna di Mare Rouge sta per concludersi: sono le 19.00. E’ ora di rientrare alla base. Mi sono dimenticata la pila: ancora non sono entrata nella logica di non avere sempre a disposizione la corrente. Le strade sono buie ma riusciamo a trovare lo stesso il cammino. Il non dare per scontato le comodità che per noi sono quotidiane, fa apprezzare per esempio la luce nella stanza che stasera funziona e mi permette quindi di scrivere, o l’acqua calda del tè bevuto a cena, perché oggi qualcuno è andato a riempire le taniche di acqua alla fonte di Mare Rouge.

Elisa Brivio


Foto di Stefania Cardinale

venerdì 12 novembre 2010

Se saremo ancora vivi

Sono nella stanza con altre venti persone. Un letto è occupato da una donna malata. Attaccato al suo braccio una flebo… è arrugginita. Sugli altri tre letti ci siamo seduti tutti noi, che attendiamo la visita dal dottore. Sì, perché non ci sono sedie a sufficienza per tutti. Due persone si scambiano un piccolo pacchetto plastificato, poi cominciano a ridere: quell’uomo incita la “mademoiselle" a comprare la cura magica; si tratta di una medicina tradizionale (un misto di erbe e pasta fatta in casa). Per 2.000$ haitiani potrebbe essere la soluzione più facile per risolvere o alleviare le sofferenze fisiche e psichiche di gran lunga più complesse. Nella stanza non c’è la corrente: le luci sono spente e l’aria comincia ad essere pesante ed umida. Il dottore arriva nella sala e propone alla signora stesa sul letto di andare a Port de Paix e, se avesse la possibilità, a Port au Prince, per “risolvere” la malattia che l’attanaglia. I presenti nella sala ascoltano il responso del medico. Qui tutti conoscono tutto, non esiste privacy: le gioie come le sofferenze sono condivise.


Ogni volta si ripropone il medesimo problema: nelle piccole cliniche disperse sui monti di Mare Rouge è quasi impossibile riuscire a trovare una cura e dei dottori in grado di far fronte ai problemi e malattie dei suoi abitanti: le medicine e gli specialisti non arrivano fin quassù! Effettivamente per raggiungere Mare Rouge sono necessarie quattro ore di fuoristrada da Port de Paix, nove ore di fuoristrada dalla capitale. È terra argillosa e rossa quella che accompagna ogni giorno i passi della moltitudine di persone che si spostano per raggiungere fonti d’acqua e vendere i propri prodotti al mercato. È terra scivolosa, che si interpica tra banani e manghi. È terra che offre sostentamento ma che, nel contempo, obbliga ad un isolamento che segna il confine tra la vita e la morte. La gente che vive sui monti è di classe B, tra le povertà e miserie che affliggono l’intero Paese. Si muore di diabete perché non si trova l’insulina! Si muore soli, perché anche le famiglie abbandonano il proprio caro: è la legge della sopravvivenza, del più forte, ognuno deve pensare a se stesso. La vita, come la terra, se non produce più frutto, non serve a nulla.

Ormai nella piccola sala d’attesa del dispensario, si distinguono solo occhi che, irrequieti, cercano tra le quattro mura una soluzione. Ma la notte è già calata come un manto su tutto: copre le sofferenze e le speranze; domani sarà un nuovo giorno e, si Bondye vlé, sarà ancora Lui la presenza nella quale affidarsi, sarà Lui ad indicare nuove strade… se saremo ancora vivi.

Elisa Brivio

Foto di Stefania Cardinale

giovedì 11 novembre 2010

Se fossi nata ad Haiti

Se fossi nata ad Haiti, oggi non saprei la mia data di nascita, quindi la mia età.

Se fossi nata ad Haiti avrei cinque, sette, otto figli da sfamare, diversi uomini da soddisfare, un solo amore vero ancora da sognare ed aspettare. Vivrei in quattro mura e qualche pezzo di lamiera tra i vicoli di Port de Paix: senza una rete fognaria, ogni mattina avrei dovuto scavalcare il rigagnolo di urina e odore che separerebbe la mia casa dalla strada.

Se fossi nata ad Haiti la mia giornata sarebbe cominciata alle 5.00, ai primi raggi del sole. Con il mio cesto di galline sulla testa ed i frutti raccolti da qualche banano e mango: sarei andata al mercato più vicino per appoggiare i miei prodotti sulle assi di legno ed attendere l’interessamento di qualcuno.

Se fossi nata ad Haiti, starei seduta al mercato in attesa: sguardo perso nel vuoto perché sarebbe davvero impossibile porre l’attenzione a tutte quelle persone, macchine, motorini, cani, bambini, carri, asini, cesti, cappelli, frutti, quaderni, carne, taniche di benzina, sandali, piedi scalzi,… che mi passerebbero davanti.

Se fossi nata ad Haiti la polvere di Port de Paix mi avrebbe infastidito gli occhi, i clacson dei fuoristrada ed i motorini mi avrebbero danneggiato i timpani, la terra dura e l’assenza di sandali adeguati mi avrebbero reso i piedi grandi e callosi.

Se fossi nata ad Haiti avrei chiesto “ghiv mi e dolar” al primo bianco incontrato.

Se fossi nata ad Haiti avrei dovuto trovare l’argent per comprare le divise richieste dalla scuola dei miei bimbi ed i nastrini colorati da appendere ai loro capelli crespi e soffici.

Se fossi nata ad Haiti ogni mattina mi sarebbe venuto spontaneo ringraziare il Signore per la vita, per il pane quotidiano, per la salute, per la forza fisica nel sopportare le fatiche della giornata.

Se fossi nata ad Haiti oggi non avrei potuto scappare da questo Paese che comincia di nuovo a morire schiacciato da una minaccia chiamata colera: avrei atteso inerme, imperterrita, il mio destino, pregando il buon Dio di risparmiarmi anche questa volta.

Elisa Brivio


Stefania Cardinale ed Elisa Brivio con l'equipe di Port de Paix

mercoledì 10 novembre 2010

Haiti continua a tremare


Troppo facile descrivere ciò che si vede rimanendo chiusi in una macchina e scattando qualche fotografia dai finestrini alla moltitudine di tende e gente che brulica per le strade affollate di Port au Prince. Difficile scacciare la polvere che si appiccica alla pelle ed entra negli occhi: polvere di calcinacci, di case crollate, di vite distrutte. Haiti continua a tremare, sotto gli ombrelli colorati della moltitudine di venditori ambulanti, nei “tap tap” (mezzi di trasporti locali) carichi di persone ammassate l’una all’altra, nella vita quotidiana di chi, vivendo nelle tendopoli, cerca di nascondersi da occhi indiscreti mentre si lava in una tinozza di plastica. Haiti continua a tremare, ora più che mai, perché un terremoto lascia segni indelebili nel paesaggio ma soprattutto nella mente e nel cuore delle persone: crepe difficili da risanare perché sono le ennesime, dopo secoli di schiavitù e sottomissione. Questo è un popolo forte, che non si arrende facilmente ma che, nel contempo, si indurisce: è raro incrociare lo sguardo di un haitiano, difficile far credere di essere venuti per aiutare, quando “il bianco” ha sempre significato supremazia e violazione; il passato non si dimentica ed il presente certo non aiuta a riacquisire fiducia in se stessi e negli altri.


Il Palazzo Nazionale e la Cattedrale sono ridotti ad un cumulo di macerie: tutto è crollato come un castello di carte. Ormai questi edifici sono diventati l’emblema di attrazione da parte di europei ed americani: i bambini ci invitano a vedere gli avanzi di terra e cemento “vieni, qui è ancora più distrutto! …se vuoi posso accompagnarti all’interno!” nella speranza di ricevere qualche gourde in cambio della “visita turistica”. Mi sento a disagio perché ho la strana sensazione di essere nella realtà, ma completamente schermata da una campana di vetro che mi permette di essere mera osservatrice e non attrice.


Al calar del sole bisogna rientrare rapidi a casa, così dicono le regole previste dalle Nazioni Unite. Poche luci e qualche fuoco fanno intravedere la vita notturna della città: con passi spediti tutti ritornano alle proprie “case”: è trascorso un altro giorno, e già si sentono in lontananza voci che inneggiano canti e litanie; un ringraziamento semplice e sincero per un nuovo giorno che comincerà domani.

Elisa Brivio
Foto di Stefania Cardinale

martedì 2 novembre 2010

Bouns track #1

jacuzzi, di Maddalena Villa (Thailandia)



Jordan flag, di Anna Ogliari (Giordania)



Sono italiani e si devono far riconoscere, di Andrea Buonopane (Bulgaria)